Il 24 aprile 2013, a Savar, un sub-distretto di Dacca, capitale del Bangladesh, il Rana Plaza crolla. Le vittime sono 1.129, i feriti 2.515.
Il Rana Plaza era un edificio commerciale che ospitava, tra le altre attività, fabbriche tessili che producevano abbigliamento per alcuni dei più importanti marchi della moda mondiali.
È stato uno dei più gravi disastri industriali della storia, un disastro che, tuttavia, poteva essere evitato.
Nei giorni precedenti al crollo, infatti, molti dei lavoratori, avendo notato crepe sull’edificio, avevano manifestato le loro preoccupazioni sulla sicurezza del complesso. Mentre i negozi e la banca presenti al piano terra chiusero immediatamente le loro attività, i proprietari delle fabbriche tessili ignorarono gli avvertimenti. L’industria della moda, infatti, non può fermarsi, perché non si ferma la nostra richiesta di abiti usa e getta al più basso costo possibile!
In seguito a questo disastro nasce Fashion Revolution, un movimento globale che chiede un cambiamento radicale nell’industria della moda, sia da parte dei produttori che da parte dei consumatori.
Secondo uno studio pubblicato dalla Ellen MacArthur Foundation nel 2017, più di 300 milioni di persone lavorano nell’industria tessile; di queste, quelle impiegate in lavori a bassa specializzazione e con salari al di sotto della soglia di povertà sono soprattutto giovani donne. L’industria tessile è, secondo il Global Slavery Index (2018), uno dei settori dove con più frequenza le condizioni di lavoro portano allo svilupparsi di situazioni di schiavitù.
L’impatto ambientale dell’industria tessile, la seconda industria più inquinante al mondo dopo quella petrolifera, è altrettanto devastante: ogni anno questo settore utilizza 98 milioni di tonnellate di risorse non rinnovabili e 93 miliardi di metri cubi d’acqua, ogni anno emette 1.2 miliardi di tonnellate di CO2, più di quelle di tutti i voli internazionali e del trasporto marittimo insieme; inoltre, a causa dei sistemi di tintura e trattamento dei tessuti, è responsabile del 20% dell’inquinamento idrico.
Una moda dominata dal fast fashion (la produzione di abiti usa e getta al minor costo possibile) non è sostenibile, né da un punto di vista ambientale né da un punto di vista sociale e umano. I dati sono impressionanti: nel 2015 sono stati prodotti approssimativamente 150 miliardi di capi, e il numero continua a crescere.
Compriamo il 60% in più dei vestiti che compravamo 15 anni fa, ma li indossiamo per la metà del tempo.
Meno dell’1% dei materiali usati nella produzione di abbigliamento viene riciclata in nuovi capi. Secondo le stime riportate dalla Ellen MacArthur Foundation:
Più della metà dei capi di fast fashion prodotti vengono gettati dopo meno di un anno dall’acquisto.
Solo nel Regno Unito, 11 milioni di capi di abbigliamento vengono gettati ogni settimana.
È necessario un cambio di rotta, è necessario sostituire questa cultura dell’usa e getta con la cultura della cura e del riutilizzo.
Per questo la campagna Fashion Revolution è oggi più importante che mai, perché dobbiamo uscire da quest’ottica e chiedere alle aziende trasparenza e rispetto per l’ambiente e per tutte le persone coinvolte lungo la filiera. Un futuro etico e sostenibile per l’industria tessile è possibile.
Anche quest’anno, in occasione della Fashion Revolution Week, la campagna Fashion Revolution chiede la partecipazione di tutti.
Unisciti alla rivoluzione e facciamoci sentire!